CRISI STRUTTURALE O CRISI CONGIUNTURALE?
Camogli, 15 e 16 maggio 2009. Convegno annuale Gifco: intervento di Enrico Finzi (Presidente di Astra Ricerche).
Testo e pubblicazione a cura della redazione della rivista ItaliaImballaggio
PREAMBOLO: LA VERA DOMANDA
Fuor di metafora, la questione che mi viene chiesto di affrontare – e che sta a cuore a tutti – è “quando ne veniamo fuori?”. Cercherò, dunque, di rispondere, a rischio di essere contestato e sbeffeggiato. Parto dal dato reso noto questa mattina, e non ancora ufficializzato dalla stampa: nel primo trimestre di quest’anno il calo del PIL si assesta al -6% rispetto al primo trimestre dell’anno scorso. Dunque, anche nell’ipotesi improbabile che il Paese mantenga un profilo costante – cioè non recedessimo né crescessimo più per tutto il resto del 2009 – il PIL si attesterebbe al -4,6%: molto peggio di quanto prevedessero gli esperti internazionali e nazionali, che si fermavano al -4%. In realtà, ovviamente, non avremo un profilo piatto. Il modello econometrico che abbiamo messo a punto nell’81 e che, dati alla mano, continua ad essere migliore anche di quello adottato in Confindustria, prevede sia un secondo sia un terzo trimestre in calo. Per l’Italia, dunque, quest’anno dovrebbe chiudersi con un PIL in calo del -6.5%: un dato sconvolgente. La sua gravità si misura anche per comparazione, ricordando che l’unica recessione significativa della nostra storia recente, quella del ‘93, ha avuto un impatto men che dimezzato e, per di più, spalmato su un numero inferiore di mesi. Ciononostante – si badi bene – ci mettemmo tre anni e mezzo a tirarcene fuori. Dunque, per essere corretti il fenomeno va inquadrato così: non solo siamo in una crisi nerissima ma, oltretutto, questa sarà seguita da una ripresa molto lenta. Fatti i conti questa volta ci giochiamo un 7 anni: 2 per cadere nel baratro e 5 per risalire.
INTERMEZZO (IL GIUSTO MEZZO)
Chiunque sostenga che in realtà “va bene” è, dunque, un imbecille: è colto da beota ottimismo, come dicevano i greci. O, se preferiamo dirla con gli psicologi, ha un atteggiamento denegatorio (vede le cose come stanno ma non lo vuole ammettere). Ugualmente beota è chi dice che la crisi è inarrestabile e destinata ad aggravarsi continuamente. Non è così. E già adesso non è così: come ha detto Tremonti, che è un erudito, non c’è stato Armageddon. Nella nostra cultura biblica Armageddon è il giudizio universale; riferito al nostro ambito di discorso significa che “l’effetto domino” per cui, giorno dopo giorno, avremmo letto di un fallimento dopo l’altro, non c’è stato. La capacità di risposta delle nostre imprese leader, finanziare anzitutto, è stata quasi pari alle loro responsabilità nello scatenare la crisi, e la quantità di risorse messe in campo per sostenere il sistema è stata impressionante. La pagheremo per anni in termini di inflazione – e forse questo non è chiaro a tutti – e tuttavia l’operazione è riuscita. Teniamo, dunque, una linea mediana, né ottimista né catastrofista. E il nostro settore? Mi sono informato: l’industria del cartone ondulato vive un calo già a partire dal 2007, con una accelerazione nel 2008. E ora ha iniziato male l’anno, collocandosi al di sotto dell’andamento medio dell’economia. Tuttavia non me ne preoccuperei più di tanto perché, nel medio periodo, il cartone ondulato va meglio della media: cala molto, ma risale prima e più vigorosamente. E questo, in effetti, è ciò che prevedo accadrà.
CINQUE ORDINI DI DIFFICOLTÀ
In ogni caso la situazione è grave, e lo è per 5 motivi.
Prima difficoltà: la contemporaneità delle crisi
Il primo motivo è la generale crisi economico-finanziaria, ovvero il “congelamento” dell’economia in tutti i settori, anche quelli che per ora mostrano un andamento positivo (esempio tipico, la tecnologia di consumo – cellulari, televisori ecc. – che cresce ancora, magari “solo” di un +2%, dopo i precedenti sviluppi a 2 cifre (e spesso anche superiori al 20%!). Si tratta, insomma, di un effetto generale; è già stato studiato in occasione delle crisi precedenti e sappiamo dunque che nessun settore riesce a sottrarsi. Ma c’è di più. Non solo la crisi attuale è gravissima, ma presenta anche il carattere nuovo della contemporaneità. Insomma: vi ricordate che una volta i settori esportatori dicevano “andiamo male negli Usa per via dei cambi però la Germania tiene”? Bene. Oggi, invece, non “tira” più niente. Riassumendo, questa crisi presenta il carattere inedito del regresso contemporaneo delle economie di tutto il mondo: negli Usa, in tutto il Nordamerica, nel Centro e Sudamerica, in Africa, nell’Asia vicina e lontana, nei Paesi dell’ex Unione Sovietica, nella vecchia Europa… E, dunque, nessuno può sottrarsi.
Seconda difficoltà: le peculiarità dell’economia italiana
Il secondo motivo che rende questa crisi così grave deriva dal fatto che il vostro settore è connotato da una export orientation non elevatissima. Insomma, la performance del cartone ondulato dipende prevalentemente dall’economia interna e, secondo i dati statistici, l’economia italiana va peggio della media europea. È pur vero che ci sono dei Paesi grandissimi e potentissimi che vanno peggio di noi (la Germania, per esempio), o dei Paesi vicini (la Spagna) che per anni ci hanno fatto mangiare la polvere – anche nel ciclismo! – che ora stanno vivendo un tracollo verticale. Ciò non toglie che noi abbiamo un tasso di decremento dell’economia reale superiore alla media europea. Non è vero, infatti, come dicono alcuni, che l’Italia sta meglio. Sta meglio dal punto di vista finanziario, se non altro per l’antichissima tradizione di risparmio degli italiani e per l’arretratezza del sistema bancario (arretratezza che lo ha, in parte, protetto dalle conseguenze più nefaste della crisi internazionale), tant’è che l’istituto di credito che ha pagato lo scotto più elevato è stato Unicredit, proprio perché più avanzato. Dunque voi – imprenditori del cartone – risentite maggiormente della crisi generale in quanto operate nell’economia reale e non in quella finanziaria. I vostri clienti hanno frenato in misura superiore al “necessario”, generando un effetto-terrore che si è tradotto in un fermo improvviso e spesso quasi totale degli ordini (e questi, oltretutto, non si sono trasferiti su altri materiali, manifestandosi proprio come il sintomo di una “over reaction”).
Terza difficoltà: un carattere “ballerino”
C’è, poi, un altro elemento da considerare, che pesa in Italia più che altrove, ed è il nostro carattere nazionale (tema di cui si parla poco). Parlo qui del “sentiment” degli italiani, termine tecnico che designa l’ottimismo e il pessimismo dei connazionali: chi, come me, lo studia, sa bene che gli italiani sono un popolo connotato da ciclotimicità, ovvero dall’alternanza di fasi di euforia e di depressione. Si tratta di uno stato psicologico, a volte indipendente dall’andamento delle cose, presente in tutti i Paesi ma da noi in misura più marcata. Anzi, per essere più precisi dovrei dire che noi italiani siamo “un popolo ciclotimico con seni profondi e ravvicinati”. Ciò non ha a nulla che fare con la sessualità. Deriva dal fatto che, se disegnate un grafico con l’ottimismo posizionato in alto e il pessimismo in basso, nel tracciare il sentiment seguite un andamento altalenante (ciclotimico) che ciascuno di noi presenta normalmente ed è per così dire fisiologico (insomma non patologico, se non quando è molto accentuato). Se costruite queste curve seguendo lo stato d’animo dell’opinione pubblica italiana, otterrete dei seni (picchi) molto alti e poi molto bassi quando cadiamo in depressione, e per giunta corti perché né le fasi alte né quelle basse durano a lungo. Che c’entra con l’andamento nel vostro settore? C’entra moltissimo. Perché di fronte alle difficoltà generate dalla crisi assistiamo a un gioco al rimpallo: i vostri clienti reagiscono in maniera ciclotimica ipotizzando che i loro clienti reagiscano in maniera ciclotimica. Questo meccanismo, come si può intuire, moltiplica gli effetti del fenomeno e noi, infatti, siamo caduti in depressione più che qualsiasi altro Paese europeo. Me lo aspettavo ma – giuro – non in questa misura!
Il sentiment degli ultimi 30 anni – Per convincervi di quanto conti questo fattore, basta che pensiate che quasi tutti i vostri prodotti sono collegati all’andamento del largo consumo: ossia, in definitiva, che voi dipendete dalla domanda di massa. Insomma, chi vi “alimenta” sono coloro che usano prodotti imballati nel cartone ondulato, ossia “la popolazione”. EvidenteÈ evidente, allora, quanto sia importante sapere qual è il sentiment nazionale. Ecco i dati aggiornati. Per 30 anni, da quando abbiamo iniziato a fare questo tipo di ricerche, l’Italia ha manifestato un sentiment elevato e positivo piuttosto stabile, sugli argomenti più disparati. Chi se ne è avvantaggiato? Tutti. La Bayer, per fare un esempio facile, commissiona ricerche sul sentiment chiedendo alle persone se nel futuro prossimo prevedono di stare meglio, peggio o stabili di salute. La Bayer, infatti, sa che se la gente prevede di stare male, già adesso più farmaci da banco; è un effetto automatico. Le donne, che si prendono cura dell’armadietto delle medicine di casa (quello dove noi uomini di solito non teniamo quasi nulla), riempiono l’armadietto perché “non si sa mai”… in generale… io stocco. Indagando sul sentiment della popolazione, dunque, si colgono segni significativi sull’andamento dei farmaci da banco. La domanda che, invece, interessa a me è “come crede che le andranno le cose nel prossimo anno?”. Gli ottimisti in senso stretto sono coloro che, indipendentemente da come stanno in assoluto, dicono che staranno un po’ o molto meglio. Poi ci sono gli stabili, che andranno “come adesso”. Ma com’è adesso: ”male, così-così o bene? Gli stabili positivi sono considerati ottimisti in quanto non c’è niente di meglio che stare bene e pensare di continuare così. Considerando la media degli ultimi trent’anni, queste due categorie sommate insieme rivelano che il 63% degli italiani erano ottimisti: circa 2 italiani su 3 si prospettavano miglioramento o stabilità positiva. E questo è uno dei principali motivi per cui l’Italia è andata piuttosto bene fino ad ora.
La caduta – Uno di voi mi diceva che per vent’anni avete vissuto una crescita continua; beh, in parte ciò è stato dovuto a questo: migliorava il tenore di vita e l’ottimismo portava a consumare di più (anche i prodotti impacchettati nel vostro amato ondulato). La situazione ha iniziato a peggiorare nell’ultimo trimestre del 1999, subito prima del volgere del millennio, prima dell’introduzione dell’euro e anche prima dell’attentato alle Torri Gemelle. A quell’epoca si è iniziato a notare mese dopo mese, anzi trimestre dopo trimestre, che l’umore collettivo stava peggiorando. Per un po’ abbiamo pensato a un fenomeno congiunturale. Poi ci si è resi conto che il carattere nazionale stava cambiando. Già all’inizio del millennio eravamo entrati in fase depressiva, prima poco e poi sempre più evidentemente. Ecco alcuni dati significativi: nella rilevazione di inizio d’anno, fatta per la Banca Popolare Milanese, nel gennaio del 2007 circa il 50% degli italiani si dichiaravano ottimista, il resto pessimista o incerto. Nel 2008, alla seconda settimana di gennaio, eravamo già piombati al 42%. E quest’anno non credevo ai miei occhi: 29% a gennaio. Mai visto niente di simile! Sappiate anche che ciò è accaduto in una cinquantina di Paesi (dove si conduce questo tipo di indagine) ma in nessun luogo come in Italia, perché – appunto – siamo un paese iper-ciclotimico.
La rimonta – Ma dov’è, allora, la buona notizia? Sta nel fatto che gli italiani hanno seni lunghi in altezza ma corti in ampiezza: dunque non riusciamo a rimanere a lungo in una condizione di depressione. E questo si vede in ogni ambito. Non esiste alcun Paese al mondo in cui un allenatore vince tre partite e allora chiede il triplo dello stipendio e finisce in prima pagina sulla Gazzetta dello sport. Così non esiste alcun Paese al mondo in cui un allenatore perde tre partite e viene praticamente dato per cacciato. Che c’entra? Rivediamo il primo punto, quello relativo alla crisi generale. C’è ed è grave, ma – al di là dell’ottimismo spesso di maniera della Banca Mondiale, dell’Ocse e di tutti questi quegli organismi che dicono sempre che “va male, ma non così male e l’anno prossimo andrà meglio” – nell’insieme è convinzione diffusa che l’inizio della recovery si collocherà nell’ultimo quadrimestre di questo anno maledetto. E i segnali dicono che ci sarà una pur lieve ripresa dell’economia già a partire dal primo trimestre del 2010. Un po’ per ideologia, pressione mediatica, ecc. ma un po’ per sostanza: non c’è dubbio che il peggio sia passato. Quanto al punto due (il “congelamento” degli ordini, Ndr), gli imprenditori vostri clienti – specialmente chi opera nel settore alimentare – stanno rivedendo i loro programmi, avendo scoperto la crisi c’è ma meno grave di quanto pensassero. Io lavoro per alcune grandi catene della GDO e per imprenditori di vari settori, e posso dunque citare alcuni dati concreti e significativi. Uno riguarda Coop, che rappresenta il 18% della distribuzione organizzata italiana, e domina una classifica in cui la quota del secondo operatore non raggiunge le due cifre. Bene, Coop, molto forte sia nell’alimentare sia nelle altre merceologie da super e ipermercato, segnala che è finito il calo del food. O, meglio, persiste ma a valore, come effetto della forte e reiterata politica promozionale attuata un po’ da tutte le insegne della distribuzione (che hanno preferito ridurre il valore dello scontrino medio pur di sostenere i consumi a quantità). L’entità di questo fenomeno varia, anche di molto. Da un recente lavoro per esempio, è emerso che nel 2007 il tasso di promozionalità era del 16% (un sesto del valore delle merci “se ne va” in promozione) mentre in questo momento la media nazionale è del 29%. Va tenuto presente, al riguardo, che la GDO usa con larghezza la leva promozionale anche per sottrarre ulteriori quote di mercato al dettaglio tradizionale che, infatti, registra una drammatica moria di punti-vendita. Tornando al dettaglio, vediamo poi che al Nord l’indice attuale di promozionalità è intorno al 20%, mentre in Sicilia e Calabria arriva al 50% perché, in taluni casi, si preferisce vendere in perdita pur di mantenere il cliente, facendo così un investimento sul territorio. Dunque, nell’alimentare la crisi è già finita o – meglio – c’è ancora, ma assai contenuta. Un altro esempio? Il consumo di ortofrutta: l’anno scorso era calato tra il 12% e il 16%, con conseguenze sensibili per il vostro ondulato, mentre oggi è sotto del 2% e, anche in questo caso, possiamo dire che il peggio è sicuramente alle spalle. Ma, al di là dei singoli esempi, quello che mi preme dire è che la reazione isterica della maggior parte dei vostri clienti sta rientrando: oggi l’idea condivisa è che “certo va male, ma non è la catastrofe che ci eravamo detti”. Una catastrofe, effettivamente, enfatizzata dai media. Attenzione: dire che la colpa sia dei giornalisti, che fanno il loro mestiere, in realtà non ha senso. Tuttavia, è pur vero che tanto pessimismo non può che avere peggiorato le cose, perché quando uno si confronta solo con notizie negative si sente un cretino se anche solo pensa, fra sé e sé, che le cose forse non sono davvero così “pessime”. Dunque, io credo che da qui all’autunno una parte della vostra clientela riprenderà fiato. E il sentiment? Come va? Rispetto al 29% di ottimisti di due mesi prima, a marzo sono saliti al 33%. E a inizio di aprile eravamo al 37%. Dunque, in tre mesi c’è stato un incremento di 8 punti, corrispondente a 4 milioni circa di persone (l’universo di riferimento è costituito da circa 51 milioni di italiani) che nel giro di due mesi sono passate dal pessimismo più cupo a un seppur moderato ottimismo. Stando ai risultati delle nostre indagini, insomma, il giro di boa psico-culturale è già passato. Si può ritornare indietro? Non credo. Conosco troppo bene i nostri connazionali. Risaliremo rapidamente oltre il 40%, per gli stessi motivi che orientano il sentire gli imprenditori. Gli italiani iniziano a dire in parte “Tutto qui? La crisi non è poi così grave”, e mentre c’è una parte del Paese , in particolare, che desidera fortemente sperare di sperare. Perché, non dimentichiamolo, noi italiani non riusciamo a stare a lungo in depressione, abbiamo bisogno di far delle scommesse positive. Siamo un paese mediterraneo, anche a Bolzano (che peraltro, non dimentichiamolo, rispetto al Tirolo è a meridione, così come lo stesso Tirolo rispetto alla Baviera, e questa rispetto ad Amburgo e così via, fino al Polo…). Siamo mediterranei ed estroversi. È dunque vero che cadiamo più degli altri in depressione, ma è anche vero che siamo i primi a uscirne e che veleggeremo – più o meno responsabilmente – verso un atteggiamento positivo.
Quarta difficoltà: l’attacco al packaging
Il quarto elemento che determina la crisi, e che so preoccuparvi, è l’attacco al packaging. Un attacco che ha tre facce: la prima è la critica dell’overpackaging, la “colpevolizzazione” del packaging. Eurisko non può che avervi detto, prima che io arrivassi, che l’immagine del cartone ondulato è molto buona in sé, oltre che eccellente a confronto con quella degli altri materiali da imballaggio. La questione dell’overpackaging viene in effetti seguita con qualche interesse da parte della popolazione: tuttavia dobbiamo subito precisare che la carta e il cartone non rappresentano l’area di tensione. Sotto esame sono altri materiali. La seconda faccia del problema, in grado di incidere sui volumi, consiste in quella tendenza collettiva alla sobrietà, all’essenzialità, alla semplicità che era già sensibile prima della crisi e che ora non può che essere cresciuta. Se una parte del vostro business è stato costruito sul baroccheggiante, il complesso, il voluminoso, un pochino pagherete il dazio. È una tendenza generale, che ritroviamo in Ikea come da Zara, in atto già da tempo, e non verso la riduzione del cartone ondulato in particolare ma volta a contenere la quantità dl materiale utilizzato in generale, con ricadute sui volumi. È dunque possibile che talune tendenze socio-culturali orientino in questo senso i consumi, ma non in misura rilevante: se fossi in voi non me ne preoccuperei. Il terzo aspetto del problema riguarda i prodotti senza packaging, cioè sfusi. Si tratta di una minaccia non del tutto irrilevante perché, effettivamente, esiste un diffuso mood a favore del “latte del contadino”. Questo favore, però, tende a diminuire con l’uso del prodotto: più lo usi meno lo ami. Anzitutto per via dei rischi di contaminazione batterica, perché il packaging serve essenzialmente a rendere trasportabile e a proteggere il prodotto; (in ultima analisi a renderlo sicuro, specie se alimentare). E poi perché il prodotto sfuso perde una serie di benefit, apparentemente secondari, che invece il confezionamento riesce a garantire. Dunque, non c’è dubbio: un po’ di “moda” e un po’ di interesse per i prodotti del territorio, onesti, di stagione, che non hanno grandi costi logistici ecc. indubbiamente ci sono, sostenuti anche da organizzazioni che hanno una certa influenza presso la classe dirigente e gli intellettuali. Ma i vantaggi del packaging sono straordinariamente rilevanti e la società italiana non è affatto disposta a rinunciare alla cornucopia del super e dell’ipermercato. E questo riguarda tutto: un po’ meno (ma neanche tanto meno) l’ortofrutta, dove ci sono concreti motivi a favore di un razionale approvvigionamento sui mercati locali, anche se questi non sono in grado né di rispondere alla domanda di frutti esotici (per fare un esempio) e – tipicamente nel Nord del Paese, né di saturare, con la sola produzione locale, la domanda locale.
Tante bolle e qualche balla – Detto questo, dobbiamo riconoscere che esistono dei reali fenomeni di overpackaging. Di che cosa sto parlando? Del fatto che le confezioni sono state sovra utilizzate come medium, ossia come mezzo di comunicazione, per veicolare messaggi destinati alla testa e al cuore (comprese le etichette consumeristiche). Altro che “venditore silenzioso”! Il packaging è diventato un venditore urlante! E si è esagerato, un po’ tutto il marketing ha esagerato. Noi parliamo di molte bolle ma – forse – dovremmo fare un po’ di esame autocritico e, perché no?, riprendere una misura più sobria. Perché – forse – c’è stata anche un po’ di bolla del marketing (e ci sono state anche un po’ di balle del marketing…). L’invito a riprendere la misura viene dalla constatazione che, anche per effetto della crisi, c’è stato uno slittamento nelle caratteristiche delle confezioni considerate importanti. Oggi la gente è meno attenta ed entusiasta ai contenuti di marketing di una confezione, e presta più attenzione alla sua capacità di proteggere il contenuto contro urti e cadute, possibili contaminazioni, fuoriuscite del prodotto ecc.: insomma, alla funzione primaria di contenere, proteggere e rendere il trasporto più leggero (nel vostro caso molto leggero, perché il peso del cartone ondulato è strutturalmente basso rispetto ad altri materiali). Dunque, riassumendo, alcune buone ragioni consigliano un ritorno alla sobrietà ma, nell’insieme, le minacce generate da residui di ecologismo fondamentalista, dall’esaltazione per i prodotti del contadino (magari finanziata dalle grandi confederazioni dell’agricoltura), dal rifiuto dell’overpackaging sono, nella sostanza, minacce secondarie. La verità è che della carta e del cartoncino non ci priveremo.
La carta, consumi in crescita – Una quindicina d’anni fa svolgemmo, sul comparto delle macchina da stampa, un lavoro che ricordo con piacere. Una grande impresa, che non nominerò, pagò 800 milioni dell’epoca a una società affinché disegnasse lo scenario del settore negli anni successivi. Quella ricerca, in sostanza, affermava che in capo a pochi anni in Italia non si sarebbe stampato sostanzialmente più nulla: loro erano americani e, dunque, sapevano che Internet avrebbe soppiantato gli altri mezzi di comunicazione scritta. L’anno dopo, a distanza di pochi mesi, noi dicemmo – basandoci sui più modesti strumenti dei nostri scenari – che non era così: che sì, ci sarebbero stati dei cambiamenti ma che più si fosse diffusa Internet e più la gente avrebbe stampato documenti. Oggi i dati ci dicono che, come conseguenza del diffondersi di Internet, l’uso della carta da stampante è aumentata del 12%. Insomma, oggi siamo totalmente informatizzati ma poi stampiamo i contenuti che trasmettiamo in digitale perché riusciamo a ragionare meglio sul tabulato. Nel campo dei media è tutto abbastanza chiaro: nella storia è arrivata la radio e la carta stampata ha venduto più di prima; è arrivata la TV e la radio è più amata che mai (38 milioni di italiani la ascoltano tutti i giorni e continuano a incrementare i fatturati pubblicitari); abbiamo preso a comunicare via SMS e se da un lato, in effetti, sono morte le cartoline (ridotte di due terzi), dall’altro la carta è più viva che mai. Anzi, nel lungo termine avremo bisogno di più carta e per più ordini di motivi. Qualche esempio? L’alfabetizzazione cresce, allargando la base dei lettori. Insomma, per comunicare, anche con i nuovi mezzi elettronici, si usano parole, anche se magari più semplici; dunque è in atto un recupero della lettura e della scrittura. E poiché l’Italia resta tutt’oggi uno dei Paesi con la più bassa percentuale di laureati, c’è ancora molto margine di miglioramento. Insomma, la carta non scomparirà, esattamente come l’e-book non farà scomparire i libri, anzi… Poi, con l’andar del tempo avremo sicuramente meno packaging per unità di prodotto, però avremo sicuramente anche più unità di prodotto, anche perché i prodotti si fanno sempre più piccoli (se non altro perché si riducono i nuclei famigliari). E ancora: si userà più packaging a base cellulosica a scapito di altri materiali, perché carta e cartone presentano alcuni vantaggi strutturali, a partire dall’assolta riciclabilità (ci sarà un motivo per cui l’Italia ha raggiunto proprio qui la leadership europea nell’uso dei materiali riciclati…). Questa propensione è sostenuta dal fatto che ormai nessuno parla più di strage di alberi dell’Amazzonia, perché oggi tutti, salvo forse qualche maestro male informato, sanno che non è vero: più usiamo carta, cartone e cartoncino e più riforestiamo. Parliamo, insomma di risorse rinnovabili: una caratteristica tanto più preziosa quanto maggiori diverranno i problemi di reperibilità delle materie prime, tendenzialmente sempre più drammatici man mano che crescono le economie asiatiche, i loro fabbisogni (di energia, materie prime, ecc.) e i relativi prezzi.
Quinta difficoltà (il vero problema e la sua soluzione)
Dunque, andiamo verso un mondo in cui il vostro materiale e quello che ci sta dentro è destinato a crescere. Ma allora qual è il vero problema? Il problema c’è. Io sono ottimista a medio-lungo termine (e anche a breve ma non a brevissimo…). Credo, infatti, che già verso la fine dell’anno vi renderete conto che i cinque citati fattori di crisi alleggeriranno il loro peso. E sono convinto che l’anno prossimo non sarà positivo ma che le difficoltà generate dalla crisi saranno molto più sopportabili. Addirittura, ritengo che già a partire dalla metà del 2010 vi si offriranno più opportunità che minacce. E che fra due anni non solo il peggio sarà passato, ma avremo ripreso la crescita. E il problema, allora? Detto in parole semplici, non credo che ci sia spazio per tutti. In quasi tutti i comparti economici, come sappiamo, gli indici di concentrazione tendono a crescere e quantità crescenti di prodotto faranno capo a un numero sempre più basso di imprese. Spiace dirlo ma bisogna dirlo: anche nel vostro settore ci sono realtà troppo marginali, che non riescono e non riusciranno a fare le tre cose indispensabili per superare le difficoltà attuali e prepararsi alla ripresa (cost saving, massa critica e capacità di investire in innovazione). Dunque, nell’insieme, avremo meno imprese “vive” per ciascun settore. E questo vuol dire che è meglio chiudere prima di fallire, vendere (o fondersi, fare merger attivi o passivi, costruire alleanze) prima di andare a gambe all’aria… perché uno dei principali fattori di debolezza dell’economia italiana è l’eccessiva frammentazione del tessuto produttivo… perché non c’è grasso che cola per tutti.
IN CONCLUSIONE
Un processo di concentrazione più radicale dell’attuale è non solo inevitabile ma perfino auspicabile. E la sfida si gioca già nel dopo-crisi, mettendo in campo come arma principale quella dell’innovazione. A tutto campo. Perché si tratta di battere strade mai percorse, fare esperimenti e prove, rischiare il vicolo cieco… E questo ci vede in vantaggio perché la caratteristica peculiare della miglior imprenditoria italiana è, appunto, la creatività. Dunque, in tutta franchezza, non credo che fra 10 anni le vostre imprese ci saranno ancora tutte; immagino uno scenario con un numero un po’ più basso di imprese, un po’ più grandi e più capaci di cambiare. La mia conclusione è che stiamo vivendo un momento drammatico, ma abbiamo già girato la boa dal punto di vista psicologico (penso al sentiment della popolazione ma anche degli imprenditori): continueremo a volare bassissimo per i prossimi mesi sul piano sia della produzione sia, soprattutto, dell’occupazione. Siamo dunque nella fase più cupa della crisi, ma ne verremo fuori, e prima di altri, sorprendendo noi stessi e il mondo per questa nostra millenaria abilità nel cogliere le occasioni. Non sono sicuro che arriveremo tutti alla meta ma sono sicuro che ci arriveremo alla grande. Anche perché cresce la domanda di confezioni performanti e competitive, amiche della natura, leggere e facili da trasportare, massimamente amabili in termini di look e di informazione, simpatiche (in una recente ricerca sui vari materiali a confronto ho verificato che la carta e il cartone costituiscono le materie prime più simpatiche alla popolazione, quelle che suscitano il massimo di cordialità, la minore aggressività, offrendo il maggior comfort esistenziale). Prevedo, insomma, una vita con più cartoncino. È una previsione, un auspicio e anche un augurio.
ENRICO FINZI – Ricercatore di marketing, consulente, giornalista, è il fondatore di Astra Srl (società di consulenza strategica nata nel 1983) di cui oggi presidente e amministratore unico (http://www.astraricerche.it).